Sostenibilità e Responsabilità nel calcio: Intervista a Stefano D’Errico (Co-Founder di Community Soccer Report)
Stefano D’Errico lavora dallo scorso aprile all’interno della Fondazione benefica del Chelsea, occupandosi di pianificare e realizzare progetti educativi soprattutto nelle scuole. Una tappa arrivata dopo aver lavorato cinque anni per il dipartimento Community dell’Arsenal, sempre occupandosi di progetti sociali con i giovani. Approdare al Chelsea gli ha dato l’opportunità di valutare da due punti di vista lo stesso tema, acquisendo esperienza che chissà, un giorno, potrà riportare in Italia. Stefano è anche co-founder di Community Soccer Report, una piattaforma che si occupa di condividere, analizzare e diffondere iniziative di Club e Federazioni calcistiche rivolte al tema della responsabilità sociale.
Quali sono stati i maggiori obiettivi raggiunti fino ad ora?
In questi primi mesi con la Fondazione del Chelsea ci siamo tolti sicuramente delle soddisfazioni. Il progetto realizzato con le scuole si è chiuso, lo scorso anno scolastico, con oltre 50 istituti coinvolti, un migliaio di ragazzi intercettati più o meno regolarmente e più di un centinaio di interventi e/o eventi promossi. Personalmente, poi, ho da poco cambiato area di lavoro, occupandosi ora di sviluppare e coordinare un progetto legato alla youth employability per la fascia d’età 14-19 anni. Inoltre, sono anche membro del “Sustainability Working Group” del Club, un gruppo dedicato a promuovere i temi della sostenibilità ambientale. Sono entrato - insieme ad un mio collega - come rappresentante della Fondazione, proprio perché anche noi abbiamo un ruolo importante nell’accompagnare il Club in questa fase di transizione sostenibile: la nostra presenza nelle scuole su base quotidiana e il poter interagire con i più giovani ci pone in una condizione favorevole nell’intercettarli, coinvolgerli e aiutarli a sviluppare ulteriormente questa consapevolezza green.
Tottenham-Chelsea è stata la prima partita a impatto 0. La Premier League è la lega che di più in questi anni ha utilizzato misure che garantiscono sostenibilità e basso impatto ambientale, come ad esempio l’utilizzo di energie rinnovabili, trasporto sostenibile per staff, squadre e tifosi, e soprattutto la riduzione dell’uso della plastica. È la giusta strada da seguire? Secondo te, e non solo nel calcio, ma in tutti gli altri sport e nei maggiori eventi come i concerti riusciremo nei prossimi anni a replicare queste iniziative e a far si che tutti gli eventi siano ad impatto 0?
Tottenham-Chelsea è stato un evento abbastanza unico, che ha in qualche modo dato il là a iniziative simili (Southampton – Arsenal del 16 aprile scorso, mentre a Febbraio 2023 ci sarà un'intera giornata di campionato dedicata a questi temi). Questi eventi sottolineano il fatto che vi è interesse da parte della Premier League di puntare sulla sostenibilità ambientale. In realtà la Premier non ha ancora una sua strategia dedicata, ma ci stanno lavorando (dovrebbe essere pubblicata entro la fine di quest’anno). Qualcosa è già trapelato comunque, e la volontà della Lega sarà ovviamente quella di arrivare ovunque, compresi le comunità e il territorio, per cercare di influenzare positivamente più stakeholder. Per esempio, sono già state lanciate delle challenge indirizzate alle scuole per coinvolgere i ragazzi più giovani nella tutela del pianeta. Senz’altro un passo interessante, che fa parte di un impegno ancora più ampio e presente che tanti club hanno già preso rendendo la Premier League un modello da seguire. Anche altri campionati sono molto sviluppati in questo senso, comunque. Cito la Bundesliga, famoso il loro caso. Abbiamo analizzato proprio quest’estate i vari Club del campionato tedesco e la loro intenzione di puntare tantissimo su questa tematica è evidente, anche grazie a vere e proprie eccellenze (Wolfsburg e Colonia per citarne due) e un impegno da parte della Lega che sta lavorando per rendere obbligatori questi parametri, pena la non iscrizione ai campionati. E in altri paesi casi interessanti sono quelli del Betis Siviglia in Spagna (anche loro promotori di una partita di campionato interamente dedicata all'ambiente), del Benfica in Portogallo o del Lione in Francia. Insomma, non mancano i riferimenti sia in termini di impegno generale dei club che di eventi, una combinazione che speriamo possa continuare ad alimentare un cambiamento quanto mai necessario.
Oltre a lavorare in più di 150 paesi e città dell’Inghilterra, ho letto che la Fondazione opera in tantissimi stati del mondo come Sud Africa, Indonesia, Tailandia, ecc.. Che risultati avete raggiunto?
La Fondazione è strutturata in cinque dipartimenti, uno di questi è quello chiamato “International”. L’obiettivo è appunto non lavorare unicamente sul territorio nazionale ma provare a coinvolgere anche altre nazioni di altri continenti. La Fondazione realizza varie attività come ad esempio quando la prima squadra è andata a fare la Tournée estiva negli Stati Uniti d’America, alcuni rappresentanti della Foundation hanno svolto attività con i ragazzi del luogo, trattando le tematiche relative al razzismo, alla discriminazione, ecc. Altri membri hanno realizzato delle attività relative allo sviluppo e partecipazione sportiva. La Fondazione non è fisicamente presente in questi Stati ma organizza regolarmente iniziative, anche assieme a partner commerciali. L'idea è cercare di esportare il marchio del club, ma anche modelli che possano aiutare le comunità locali nei loro programmi (soprattutto con i giovani).
Che supporto possono fornire i calciatori riguardo queste tematiche? Credi che possano essere il giusto “veicolo” da poter utilizzare?
In buona sostanza, credo che i calciatori possano essere parte della soluzione. Con Community Soccer Report abbiamo contribuito alla realizzazione di un libro dal titolo “Give Back: 11 storie di calcio socialmente responsabile” (edito da Urbone Publishing). Il messaggio che abbiamo cercato di mandare è che la responsabilità sociale è un concetto molto ampio, che tocca tutti i protagonisti del calcio, compresi proprio gli atleti, che dalla loro hanno una piattaforma incredibile a disposizione che possono sfruttare per lanciare messaggi o supportare cause. Il libro, come detto, ha voluto accendere i riflettori su questo tema, selezionando 11 tra calciatori e calciatrici che, per le loro azioni, possono essere considerati un po' degli “ambasciatori” di queste idee (ispirando, perché no, i loro colleghi). Tra i più attivi troviamo ad esempio Morten Thorsby, Hector Bellerin e Megan Rapinoe, che insistono su tante tematiche, dal razzismo alle pari opportunità, passando per l'ambiente e il sostegno alla comunità LGBTQ+. Come detto, essendo figure globalmente riconosciute hanno più possibilità di raggiungere un gran numero di persone, e questo chiaramente diventa sia una potenzialità che una responsabilità. Peraltro assolutamente reale: secondo un recente studio dell’ECA, è emerso che in tanti paesi la figura dell’atleta è vista come molto influente rispetto alle tematiche sociali, addirittura più di governi o squadre stesse. E questa cosa, in qualche modo, la stanno sfruttando sia i brand, che proprio alcuni club. Ti riporto l'esempio del West Ham United, che ha creato un progetto denominato proprio “The Players Project”, in cui i calciatori della prima squadra sia maschile che femminile partecipano attivamente alle attività sul territorio (ad esempio, l’attaccante Michael Antonio si è speso in prima persona per tutte le attività che cercano di prevenire la criminalità giovanile, tema in qualche modo legato al suo passato). È un ottimo esempio di come il Club si accorge del potenziale legato alla partecipazione dei calciatori, naturalmente formalizzando e regolamentando queste attività. La riconoscibilità del calciatore, come detto, può davvero diventare un ulteriore megafono per trasmettere questo tipo di messaggi.
Come si stanno muovendo secondo te i Club in Italia? Pensi che siano in ritardo rispetto ai Club Europei riguardo a questa tematica?
C'è dell’interesse, e la consapevolezza aumenta. È chiaro che da un punto di vista pratico, se io penso alla mia esperienza in Inghilterra, l’Italia è ancora un po' indietro. Però si tratta di un percorso, e spero che anche qui si arriverà al livello che il nostro calcio merita (esempi di tutto rispetto, tra l'altro, non mancano). In questo senso, credo sia fondamentale innanzitutto che i club inizino a capire che pratiche come la responsabilità sociale possono davvero aiutare a crescere, anche dal punto di vista economico, di reputazione, di riconoscibilità del marchio, quindi sono opportunità reali. Credo poi che un'altra differenza sostanziale stia nell'approccio strutturato e nell'organizzazione del proprio impegno. In Inghilterra ci sono oltre 90 società professionistiche e tutte hanno almeno una fondazione, o comunque una struttura organizzativa interamente e chiaramente dedicata alla responsabilità sociale che collabora con i club. Persino le realtà minori come il Derby County, lo Swindon Town F.C. o il Lincoln City hanno i loro progetti e la loro struttura specifica. Infine, importante sottolineare che questo impegno non è lasciato solo ai club. Invece, organizzazioni come la Premier League o la English Football League hanno loro stessi strutture operative che si occupano di coordinare il lavoro in ambito sociale e ambientale di tutto il movimento, distribuendo (parecchi) finanziamenti e persino sviluppando progettualità poi messe a terra dai club nei rispettivi territori. Insomma, un vero e proprio di sistema.
Sapendo che la maggioranza degli stadi italiani è di proprietà comunale, quale priorità suggeriresti ai club italiani per iniziare a lavorare sulla sostenibilità? Temi sociali? E quali? Temi ambientali sui centri di allenamenti? Temi ambientali che coinvolgono il pubblico? Altro?
Questo è un tema interessante e ti rispondo prendendo spunto da un’altra risposta che mi diede a mia volta una persona da me intervistata: avere lo stadio rende tutto sicuramente più semplice, ma non averlo non può e non deve essere una scusante per rimanere immobili. È ovvio che vedere la Premier, con gli stadi nuovi, sempre pieni e moderni ci fa pensare che la chiave stia negli stadi di proprietà, ma come detto non necessariamente. Iniziative se ne possono realizzare a prescindere. Forse più semplici, ma sarebbe certamente qualcosa. La chiave credo sia trovare i giusti interlocutori (in molti casi la municipalità), sedersi al giusto tavolo e avere voglia di fare le cose (ingrediente che non manca di certo). Soluzioni come la gestione dei rifiuti, o anche l'incentivo all'uso di forme di trasporto meno impattanti in occasione delle partite possono essere portate avanti anche senza uno stadio di proprietà. Così come quelle di stampo sociale, assolutamente fattibili a prescindere dall'avere un proprio impianto (vedi Milan e Inter che hanno attivato vari servizi per i tifosi ipovedenti, o la Roma che ha addirittura un desk dedicato ai fan con disabilità). Insomma, qualcosa di concreto e importante si può portare avanti, anche se ovviamente la questione stadi di proprietà sarà presto da affrontare e risolvere, aprendo forse a ulteriori possibilità.
Pensi sia meglio concentrarsi su temi sostanziali nel centro sportivo (es riduzione uso acqua, produzione energia con pannelli solari, ecc) che hanno scarsa visibilità ma sicura efficacia, o sia più utile educare il pubblico dello stadio ad esempio sensibilizzandolo su raccolta differenziata, riduzione impatti nel percorso casa stadio ecc. (in sostanza il calcio deve svolgere il ruolo di attore o di promotore nel percorso di sostenibilità)?
Spero non sia una risposta scontata, ma mi verrebbe da dire "idealmente un po’ entrambi", anche perché in qualche modo le due parti si supportano a vicenda. Sicuramente l’approccio ideale è quello che coinvolge l'impegno ambientale nella sua totalità, riprendendo ad esempio quanto promosso da validi modelli come lo Sport for Climate Action Framework delle Nazioni Unite (in Italia firmato da Juventus e Udinese) o la stessa Carta per la Sostenibilità lanciata qualche mese fa dalla FIGC a conclusione del progetto LifeTackle. In questi riferimenti, si parla di approccio sistemico, di intervenire con azioni orientate a vari ambiti, e anche di comunicazione e coinvolgimento di tifosi e stakeholders. È chiaro dunque che entrambe le dimensioni da te citate dovrebbero andare di pari passo. C'è però di mezzo la questione della credibilità secondo me: su che basi provare a influenzare gli altri se di mio non faccio niente? Quindi credo che realisticamente prima si debba iniziare a realizzare anche semplici azioni, e in quel momento provare a sfruttarle come esempio per incentivare comportamenti positivi tra i tifosi, che sappiamo rientrare tra le responsabilità di un club.
Per la tua esperienza nel Regno Unito quali sono le principali differenze tra lo scenario anglosassone e quello italiano?
Come accennato, le differenze sono principalmente due secondo me: approccio strutturato e organizzazione in generale. La presenza di qualcuno o di qualcosa - nel caso della Premier è come detto la sua organizzazione benefica che si occupa di coordinare, facilitare e promuovere l'impegno dei club - contribuisce notevolmente ad alimentare il movimento e mantenerlo vivo, supportando concretamente con progetti e creando anche cultura sul tema. E poi c'è ovviamente la questione legata alla struttura interna ai club, che credo debba essere specifica e dedicata unicamente al tema. In Premier sai esattamente chi e cosa si occupa della questione per ciascun club, con programmi specifici ed ambito di intervento definiti. Guardando alla Serie A la situazione è invece meno chiara: nel 60% dei casi un'area operativa è in qualche modo riconoscibile, ma con una composizione ben più variegata (4 fondazioni di cui solo 3 effettivamente operative con progetti concreti, alcuni che delegano il lavoro all'area marketing, altri ad un progetto sociale). Insomma, manca quell'uniformità che secondo me aiuterebbe e potrebbe consentire alle stesse società di strutturarsi di conseguenza. Dobbiamo quindi sperare che l'impulso dei club più virtuosi (non solo nella massima serie), il recente impegno della Lega Serie A (che ha stretto una collaborazione importante con la UEFA su questo temi) e quello che da sempre cerca di promuovere la Lega Pro possano fungere da volano per la prosecuzione di quel percorso che anche il nostro calcio può e deve al più presto intraprendere.